Esito del laboratorio I FIGLI DELLA FRETTOLOSA con gli allievi diplomati della Scuola Proxima Res

Gli allievi diplomati della Scuola Proxima Res
Alessio Gigante, Ginevra Portalupi Papa e Francesca Turbini
saranno in scena
mercoledì 29 maggio 2019 al Teatro Elfo Puccini di Milano
con lo spettacolo esito del laboratorio
I FIGLI DELLA FRETTOLOSA
della compagnia Berardi/Casolari

I figli della frettolosa è un progetto di formazione teatrale sul tema della cecità in cui i partecipanti non vedenti, ipovedenti e normodotati affrontano il tema della diversità, della crisi e della perdita sia come racconto autobiografico di un’esperienza personale fortemente caratterizzante, sia come metafora di una condizione esistenziale che oggi, sempre di più, pare somigliare a quella di un cieco (precarietà, instabilità, assenza di prospettiva, individualismo esasperato).

Ingresso gratuito su prenotazione
Per info scrivere a scuola@proximares.it

INTERVISTA A GIANFRANCO BERARDI (Premio UBU 2019) E GABRIELLA CASOLARI

di Alessio Gigante, Ginevra Portalupi Papa e Francesca Turbini

 

In cosa consiste questo laboratorio?

GABRIELLA: Questo è un progetto che stiamo portando avanti da un paio d’anni su tutto il territorio nazionale.

GIANFRANCO: È un laboratorio che coinvolge persone non vedenti, ipovedenti e vedenti, e che consiste nell’approfondire la tematica della cecità, non solo come limite fisico e condizione particolare con cui un ipovedente o non vedente quotidianamente e scenicamente si confronta, ma anche come metafora di una condizione esistenziale in cui tutti noi oggi viviamo.

Come coordinate il vostro lavoro di registi? Ci sono dei ruoli particolari tra di voi?

GIANFRANCO: Gabriella comanda e io amplifico i suoi pensieri. Il nostro è un lavoro corale, di passaggi stretti e veloci. In scena siamo “da soli insieme”, sempre. Noi pensiamo, scriviamo, e dirigiamo gli spettacoli sempre insieme.

 Com’è stare in scena con un non vedente? Che tipo di relazione s’instaura?

GIANFRANCO: Trovarsi in scena con una persona non vedente invalida una delle tante possibilità di relazione che hai, ovvero quella dello sguardo. È una relazione invisibile di attenzione verso l’altro, basata sull’ascolto.

GABRIELLA: Nei nostri spettacoli siamo sempre insieme. Io sono in scena al suo fianco e faccio il lavoro che un po’ state facendo voi, ad esempio, in questo laboratorio. Coi i non vedenti si crea un rapporto che non si basa sulla vista ma su altre sensazioni, ad esempio il tatto: in scena io magari tocco Gianfranco e in base alla forza della stretta con cui lo afferro lui sa quanto muoversi o come muoversi nello spazio; questo crea un linguaggio tra noi. A volte le persone non vedenti pensano che recitare consista solo nel parlare, in realtà recitare è imparare a stare in scena: loro devono avere fiducia delle persone che hanno al loro fianco, in questo caso voi vedenti, in modo tale da lasciarsi guidare e lavorare sull’attenzione in scena. Alla base del nostro teatro c’è costantemente un lavoro sull’attenzione e sull’ascolto, perché tu puoi vedere perfettamente, sentire perfettamente, ma bisogna sapere sempre ascoltare l’altro in scena.

Vi è mai capitato di non capirvi in scena o di avere delle difficoltà nel darvi a vicenda dell’indicazioni registiche?

GABRIELLA: Io e Gianfranco riusciamo a capirci quasi senza parlare, lavoriamo insieme da tanti anni e Gianfranco è molto ricettivo, ha qualcosa di speciale in scena, al di là del fatto che uno veda o non veda, in bocca a lui tutto funziona.

GIANFRANCO: Ci vuole fede nella vita e la fede è cieca. Bisogna buttarsi, credere nell’invisibile, bisogna avere fiducia prima in te stesso e poi negli altri. Ci deve essere un’onestà di fondo: la voglia di farsi comprendere dalla parte di uno e quella di farsi capire dalla parte dell’altro, questo senza che nessuno voglia imporre il proprio desiderio per principio o per ego.

Qual’ è la vostra filosofia di teatro?

GIANFRANCO: La nostra filosofia di teatro va verso la verità, va verso l’essere se stessi, l’essere autentici. Il ruolo del regista è guidare l’attore verso l’essere autentico in scena. Un bravo attore poi riesce a rendere se stesso, a rendere autentico, qualcosa che non è proprio successo a lui, ma in cui lui si rivede. Il nostro lavoro, come registi e come attori, consiste sempre nello scavare, scavare fino a trovare la verità.

Noi lavoriamo sempre da soli perché il teatro è una cosa sacra. Non bisogna fare teatro solo perché devi portare a casa lo stipendio, altrimenti sarebbe frustrante.

GABRIELLA: Noi lavoriamo da soli nel senso che siamo padroni del nostro lavoro: scriviamo quello di cui vogliamo parlare. Nell’ultimo spettacolo che abbiamo fatto, “Amleto take away”,  abbiamo usato il testo di Shakespeare ma comunque siamo partiti da noi, siamo partiti da quello che noi vogliamo dire e abbiamo iniziato a interrogarci. Quando iniziamo a lavorare a un nuovo spettacolo le prime domande che ci poniamo sono “Di che cosa vogliamo parlare?” e  “Che cosa abbiamo l’urgenza di dire?”. Non utilizziamo testi già scritti da qualcun altro, questo difficilmente lo facciamo, ma prendiamo spunto, selezioniamo dei pezzi: nel caso di “Amleto take away”, ad esempio, l’Amleto è stato il collante per mettere insieme tutte le tematiche su cui stavamo lavorando, la struttura su cui noi abbiamo costruito il tutto.

Da regista, anche in questo laboratorio, ti sei mai chiesto se l’immagine che hai nella tua testa corrisponda alla realtà?

 GIANFRANCO: Gabriella mi dice sempre quello che succede in scena. Certo, me lo sono chiesto.  Le cose in scena vanno diversamente rispetto a come me le sono immaginate, e quasi sempre vanno molto peggio. E per fortuna non le vedo, perché altrimenti mi deprimerei. Fra sogno, immaginazione, e realtà c’è un’enorme differenza. Chi vede è più consapevole della realtà.

Pensi che la tua popolarità sia aumentata dopo aver vinto il premio Ubu?

GIANFRANCO: L’Ubu ti dà visibilità, più gente sa chi sei. La vera popolarità, però, ce l’hai quando una persona ti ferma per strada e ti dice che si è emozionata guardando il tuo spettacolo o che il tuo lavoro gli ha cambiato la vita. Questo ci è capitato. Alla fine cosa te ne frega di quanto sei conosciuto, l’importante è come sei conosciuto.